Cagliari che vuol bene ai migranti. Quando il profugo non è “invasore”

Posted on 11 Apr 2011


Riportiamo l’articolo di Chicco Gallus apparso su l’Unità il 10 aprile 2011. Perché? Perché è questa la Cagliari in cui ci riconosciamo.

Fra Cagliari e la Tunisia ci sono duecento chilometri circa. Centotrenta miglia. È una distanza incredibilmente piccola, a vederla sulla carta geografica. È una distanza molto maggiore, quando per percorrerla si fa il giro lungo, quello che passa dai barconi stracarichi che sono approdati a Lampedusa. È la strada che hanno fatto 700 ragazzi tunisini, che adesso sono a Cagliari.

Sono arrivati portati qui da un’altra isola a questa con un traghetto tutto per loro, ma hanno viaggiato nel garage, grande come un hangar e tutto vuoto. Esigenze di sicurezza, comunque meglio, molto meglio che i barconi. Sono sbarcati al porto industriale e poi sono stati portati ad una vecchia caserma dell’Aeronautica, che era quasi inutilizzata da tanto, in città. La caserma è fatta come una caserma, con un muro dove c’è l’ingresso e, quando finisce il muro, una rete con in cima un groviglio di filo spinato. I ragazzi tunisini si sono messi lì alla rete a guardar fuori. I cagliaritani sono passati a vedere. Lo hanno saputo dai giornali e dalla televisione, che erano arrivati i migranti, i profughi, i clandestini, gli invasori, a seconda di chi lo raccontava e di quanto poco gradiva l’arrivo. Solo che poi, passando fuori dalla caserma non è che si capisca esattamente lo status giuridico, e quindi la definizione giusta. Però si capisce bene che sono ragazzi, qualcuno è giovanissimo, e hanno proprio le nostre facce, quelle che avevamo quando partivamo di leva e stavamo per tanti giorni in quegli stessi cortili.

Così è successo che tante persone, di fuori dalla rete si sono avvicinate e hanno chiesto ai ragazzi di cosa avessero bisogno. Qualcuno dei ragazzi parla italiano, qualcuno francese. Comunque ci si capisce abbastanza. Di cosa ha bisogno chi ha da mangiare, ma non si cambia vestiti da giorni? Calze, magliette, mutande, detersivo, shampoo. Sigarette anche, proprio come noi quando avevamo le loro stesse facce. E allora da quella rete, sotto il filo spinato, hanno cominciato a passare tutte queste cose. Una radio, Radiopress, lo ha raccontato. Monica Magro, una cronista della radio, ha avuto l’intuizione di chiedere se avevano filmato il viaggio con i telefonini. Sì, avevano filmato la gioia quando dal barcone hanno incontrato una motovedetta e poi avevano filmato il garage immenso e vuoto del traghetto. È bastato un collegamento bluetooth e adesso quelle immagini sono su Internet.

Tanti hanno chiesto come si potesse fare per dare una mano e come ci si potesse organizzare per aiutare. Adesso c’è un gruppo su Facebook, per organizzare una raccolta di cose di prima necessità. C’è una sede della CGIL, dove si porta tutto. Poi ci sono anche quelli che pensano che non si debba dare nulla e che qui i tunisini non ci dovrebbero stare. E ci sono quelli che invece a vedere questi ragazzi si ricordano quando loro stessi hanno provato cosa vuol dire non avere nulla, durante lo sfollamento, quando Cagliari era stata rasa al suolo dai bombardamenti. I ragazzi tunisini probabilmente non lo sanno, ma tremila anni fa questa città l’hanno fondata, e le hanno dato il nome proprio delle persone che venivano da dove son venuti loro. Di certo non sanno che quella collina dietro i palazzi, che si chiama Tuvixeddu, è una necropoli cartaginese, traforata di tombe dipinte. Che lì riposavano gli antenati dei cagliaritani da questa parte della rete, che probabilmente erano anche i progenitori dei ragazzi tunisini, che stanno dall’altro lato.
Punici, cartaginesi, cagliaritani. Vissuti tanto tempo fa, quando questo braccio di mare, appena duecento chilometri, invece di dividerci, ci univa.

Foto: Radio Press