Kony 2012: il video della discordia

Posted on 16 Mar 2012


C’era una volta, quasi dieci anni fa, un gruppo di ragazzi, tra cui Jason “Radical” Russell, laureati in cinematografia (e affini) e alla ricerca di una storia, La Storia da raccontare. Decidono, quindi, di partire con una piccola videocamera per trovarla. Sbarcano nel nord dell’Uganda e iniziano a filmare le storie dei ragazzi che cercano di sfuggire alla terribile realtá della guerra. Ecco La Storia. Ma La Storia diventa anche la loro storia, la filmano e la portano a casa con loro, negli Stati Uniti. Lì, per una serie di ragioni, decidono di farla diventare la storia di molti e di influenzare, quindi, la storia. Come? Facendo pressioni per far arrestare Joseph Kony (sul quale pende dal 2005 un mandato d’arresto del Tribunale Internazionale), ritenuto l’unico responsabile delle sofferenze di quei bambini. Ma come riuscirci? Usando il mezzo che conoscono meglio, il cinema e la comunicazione. Fanno, quindi, un video (non chiamiamolo, vi prego, documentario!) montando insieme le immagini (poche) girate in Uganda anni prima con quelle della famiglia dell’autore (molte) e della storia del progetto suo e della sua ONG, Invisible Children. L’idea sembra semplice: usare un linguaggio da videoclip e social network (Facebook e Twitter), colori, tante facce di giovani allegri  e uno stile collaudato che prevede la presenza costante in video dell’autore, in stile Michael Moore (nel bene e nel male). Il risultato è un video colorato, veloce, allegro, che coinvolge e fa sentire lo spettatore parte della Storia, lo fa sentire in potere di cambiare la Storia e, considerato che la storia (quasi) raccontata è atroce e si prefigge l’obiettivo di aiutare dei poveri bambini africani, questo potere fa sentire bene lo spettatore, lo fa sentire utile e attivo.

Nonostante tutto questo il video, visto in pochi giorni da milioni di persone, inizia a suscitare dubbi e polemiche. Perchè? Perchè in fondo, riprendendo l’analisi di Mareike Schomerus, è un video (tecnologicamente) moderno che diffonde un vecchio messaggio conformista: cerchiamo soluzioni veloci, combattiamo la violenza con la violenza e evitiamo complicate soluzioni di cambiamento sociale (servirebbe troppo tempo e, in fondo, non vale la pena). Senza considerare le numerose omissioni, tra cui: l’assenza della storia (in base alla logica del video la storia si fa e non la si racconta, tanto meno la si studia, ripetono, infatti, ‘We are not just studying human history we are shaping it’), della controparte di Kony nella guerra (già: il nemico di Kony non sono i bambini ugandesi, ma il governo ugandese, i bambini sono solo il vile mezzo per combattere la guerra), il video nega che Kony abbia un programma e un obiettivo (per quanto possa essere considerato folle e visionario), nega la possibilitá di risolvere il problema con azioni alternative alla violenza, insomma, nel video manca l’Uganda e la sua storia recente, tanto da sembrare costruito più per gli Stati Uniti che per l’Uganda, più per concentrare l’attenzione americana su un problema lontano che su questioni interne che potrebbero attirare l’attenzione dei giovani americani.

Il video, infatti, propone di creare un movimento per arrestare Joseph Kony (che ha lasciato l’Uganda nel 2006), descritto (attraverso l’uso del figlio di 4 anni di Russell) come un uomo cattivo che vive in Uganda e rapisce i bambini per farne soldati o schiavi sessuali. A questo punto sorgono dei dubbi. Kony, infatti, non è solo un ‘uomo cattivo’, è il leader di un movimento ribelle (il LRA, Lord Resistance Army) che combatte da decenni una guerra contro il governo ugandese. È una guerra che vede in ballo complicati interessi nazionali, regionali e internazionali (non bisogna dimenticare che si combatte in una terra contesa e ricca), che ha visto il regime ugandese di Museveni macchiarsi di gravi reati (anche Museveni fece largo uso di bambini soldato negli anni della guerriglia), non ultimo l’allontanamento forzato di migliaia di Acholi (tutt’ora rinchiusi in campi profughi) dalla loro terra. È una guerra che ha una storia complicata, ha avuto uno sviluppo particolarmente cruento e violento che ha colpito e traumatizzato la popolazione civile dell’Uganda settentrionale, che ha visto coinvolti molti attori (non solo Kony), e ha creato delle profonde ferite (materiali e psicologiche) nella societá.

La guerra non è solo Kony e il suo esercito di bambini, la guerra è molto di più, è molto più complessa di quello, ed eliminare Kony pensando d’eliminare il problema non può far altro che lasciare sul campo tutte le altre motivazioni che hanno portato migliaia di persone a combattere. Semplificare la questione affermando che Kony sia un folle demone che schiavizza e uccide bambini senza spiegarne il contesto e le motivazioni, servirà a rendere popolare Invisible Children e il suo fondatore, a dare uno stipendio ai suoi 43 dipendenti ufficiali, a pagare l’affitto della loro sede di San Diego, a stampare manifesti e adesivi con la faccia di Kony, braccialetti e ActionKit, servirà a lavarci la coscienza d’avere fatto (ancora una volta) qualcosa di buono per la povera Africa, a creare consenso per la politica estera americana, e per il regime di Museveni (nella creazione dei buoni e dei cattivi, se Kony è l’unico cattivo Museveni deve far parte dei buoni!), ma non è certo che possa risolvere la questione guerra in Uganda. Liquidare il tutto con un semplicistico e superficiale ‘Kony è un uomo cattivo che va arrestato’, può creare gravi conseguenze. Il metodo proposto, infatti, è convincere il governo degli Stati Uniti a mandare delle truppe in Uganda per catturare l’uomo cattivo (prassi consolidata negli ultimi anni). Quindi: combattiamo la violenza con la violenza e non appoggiando i negoziati di pace che sono stati iniziati anni fa, non aiutando la ricostruzione del tessuto sociale, non aiutando le istituzioni ugandesi a risolvere il problema e i traumi della sua popolazione. E così Invisible Children concentra i suoi sforzi (organizzativi e finanziari) per creare un gigantesco movimento di supporto (con tanto di vendita di ActionKit) in favore della campagna militare degli Stati Uniti in Uganda e del suo alleato, il regime del presidente Yoweri Museveni, responsabile di numerosissimi crimini contro la sua stessa popolazione, oltre che nell’attuale Repubblica Democratica del Congo.

L’obiettivo di Invisible Children quindi è lodevolissimo, aiutare ad arrestare un uomo che si è macchiato di crimini orrendi, usando però un metodo pericoloso: l’iper-semplificazione di problemi complicati, che richiederebbero soluzioni di lungo periodo, e non un semplice click su Facebook o un tweet su Twitter. Tanto più se la soluzione proposta è appoggiare la militarizzazione dell’Africa da parte di forze esterne. La storia recente dell’Africa, infatti, sembrava aver dimostrato che al continente non servono più armi per combattere, ma più dialogo e, come disse il presidente degli Stati Uniti Barak Obama nel suo celebre discorso in Ghana, istituzioni forti che il mondo dovrebbe aiutare a crescere smettendo d’aiutare i Big Men. Magari nel caso dell’Uganda.


ISABELLA SOI, CSAS – Centro Studi Africani in Sardegna