Sostiene Greenpeace che una rete criminale abbia gestito per anni un traffico illecito di rifiuti pericolosi tra l’Italia e vari paesi poveri, tra cui in particolare la Somalia. Lo sostiene in un dettagliato rapporto, nel quale non manca di fare nomi e cognomi, e che è stato ripreso anche da L’Espresso.
Quello che ne viene fuori è un giro di affaristi senza scrupoli e società a loro legate – costituite in paradisi fiscali, ça va sans dire – che “ripulivano” le industrie da rifiuti il cui smaltimento legale sarebbe stato troppo costoso. I rifiuti venivano stipati in container e caricati su navi dirette a paesi poveri, dove era facile convincere qualcuno ad accettare gli scarti del mondo industrializzato in cambio di soldi o armi. Quando l’affare non andava in porto, in tutti i sensi, le navi venivano semplicemente affondate nel mezzo del Mediterraneo, e gli equipaggi sparivano misteriosamente senza nemmeno lanciare un may-day.
Ma anche quando i rifiuti arrivavano a “destinazione”, di certo non venivano trattati in modo appropriato. Il più delle volte finivano per essere scaricati in mare, o usati come “materiale da costruzione”. Nel rapporto di Greenpeace vengono rese pubbliche foto che dimostrano come le banchine del porto di Eel Ma’aan, in Somalia, poggino curiosamente su container, pieni di non-si-sa-bene-cosa. E quel porto lo fece costruire, nei primi anni novanta, un oscuro personaggio, l’italiano Giancarlo Marocchino, di cui non parla solo Greenpeace.
Marocchino, noto per essere uno che in Somalia sapeva come risolvere problemi logistici, e su cui pesano, tra le altre, accuse di traffico d’armi, è anche uno dei personaggi-chiave dell’omicidio della giornalista del TG3 Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio nel marzo 1994. Pare che Ilaria Alpi stesse proprio indagando su traffici di rifiuti pericolosi e di armi provenienti dall’Italia. Di certo c’è – oltre al fatto che i due sono morti – che Marocchino fu tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto, e sostengono alcuni testimoni che sarebbe pure il mandante di quell’esecuzione. Per maggiori dettagli si possono consultare i tre rapporti,uno ufficiale e due di minoranza, della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sull’omicidio Alpi.
Da questi rapporti emergono preoccupanti connessioni tra vicende italiane, tra cui anche il rogo della Moby Prince e somale. Insomma, il fatto che la Somalia sia, sin dal 1989, uno stato fallito, senza un governo legittimo, in balia di signori della guerra, filoterroristi e così via, ha probabilmente fatto comodo a qualcuno. E si può anche arrivare a sospettare che la relativa stabilità che le cosiddette corti islamiche erano riuscite ad imporre nel 2006 non permettesse il proseguire dei vari traffici. Nel corso dell’ultimo anno si è tornato a parlare della Somalia, a causa degli assalti dei pirati nelle acque circostanti, e talvolta del radicalismo islamico che vi sta prendendo piede. Molto più raramente, invece, si indaga sulle ragioni che hanno trascinato il paese nel baratro, e che certamente non sono che superficialmente riconducibili alle “ostilità tra clan”. Più in generale, bisogna superare l’idea naïf che le disgrazie, in Africa, avvengano per una presunta violenza intrinseca nell’animo dei suoi abitanti, e non invece per l’intersecarsi di interessi globali.
ANNALISA ADDIS, CSAS – Centro Studi Africani in Sardegna
Link: Greenpeace | L’Espresso