La vita che non CIE… e la sicurezza che neppure CIE

Posted on 20 Apr 2012


“Il giorno in cui è venuta la polizia, alle 5 della mattina.. suonavano il campanello così.. io mi sono svegliato, ho aperto la porta e ho detto prego? Così ho passato cinque mesi e due giorni al CIE” dice Abderrahim.

Ma che cos’è un CIE? Sono in molti a non conoscere l’esistenza di questi luoghi e ancor meno quello che succede al loro interno.

I Centri di Identificazione ed Espulsione sono strutture previste dalla legge italiana per contenere coloro che, a seguito di un ingresso illegale in Italia o a causa del loro soggiorno irregolare, hanno ricevuto un ordine di espulsione e vengono trattenuti  in attesa di consentire verifiche sulla propria identità prima di un allontanamento dal territorio nazionale.

In questi luoghi si incrociano persone dalle più differenti storie: chi è appena arrivato, chi ha perso il lavoro e quindi i documenti, chi vuol chiedere asilo in fuga dalla guerra, chi lavora in nero da decenni, chi è vittima di un errore amministrativo, chi di una svista, chi è appena uscito dal carcere…

Tutti e tutte accomunati dalla detenzione dentro un recinto di calce, ferro e filo spinato senza aver violato nessuna legge penale; con l’accusa di essere potenzialmente pericolosi e dunque fonte di disordine per la sicurezza dello Stato.

Ufficiali o improvvisati, questi “spazi di eccezione” – zone di sospensione della legge come lo erano ben altri campi nel corso della storia – sono presenti lungo tutta la penisola.

Le persone che ne sono uscite (perché l’espulsione non è sempre consecutiva, a dimostrazione del fatto che l’esistenza dei CIE nasconde ben altri disegni) raccontano di pestaggi, abusi, stupri, degrado, uso improprio di psicofarmaci e dell’alto tasso di autolesionismo tra i detenuti che possono trascorrere anche oltre un anno privati non solo della libertà ma anche della dignità di esseri umani.

Oltre queste sbarre sono confinate le vite, incastrate tra le scartoffie della burocrazia, di coloro che credono che la libertà non abbia confini territoriali e che invece stanno subendo gli effetti di una legge che definisce, attraverso il possesso di tesserine magnetiche, le differenze di status tra le persone.

Accettare la logica dei CIE significa accettare l’esistenza di un’umanità divisa tra chi dà il permesso e chi lo deve chiedere, per vivere nel mondo. Non opporsi ai CIE vuol dire legittimare una società gerarchica che contempla la schiavitù, la repressione, la reclusione e l’allontanamento di chi dissente.

Fortress Europe ha recentemente prodotto la raccolta “La vita che non CIE”, composta da tre cortometraggi sui Centri di Identificazione ed Espulsione diretti da Alexandra d’Onofrio.

Il primo, “L’amore ai tempi della frontiera” narra il grande coraggio con cui Winny e Nizar hanno perseguito il loro sogno di felicità , sfuggendo alle barriere che impedivano loro di vivere insieme il matrimonio e di decidere sul luogo della nascita del loro primo figlio.

“La fortuna mi salverà” racconta invece l’impegno di Abderrahim per alleviare e testimoniare le condizioni di detenzione dei suoi ex-compagni di cella del CIE di Torino e la militanza per la chiusura di questi centri.

Il terzo corto “Papà non torna più” presenta le conseguenze di un rimpatrio per una famiglia ormai italiana. La difficoltà di Bogusha nel spiegare a suo figlio che il marito non tornerà più a casa, il viaggio del piccolo a Casablanca per incontrare il padre dopo l’espulsione e il difficile reinserimento di Kabbour nel suo paese natale, dopo aver studiato, lavorato e vissuto in Abruzzo, dove è arrivato quando aveva undici anni.

Storie d’amore in senso ampio per scardinare i meccanismi della paura di un pericolo che arriva da lontano per minare la sicurezza di un’Italia sempre meno in equilibrio.

Teniamo alta l’attenzione sui CIE!


MARIA GIOVANNA CASU, laureata in antropologia all’Università Sapienza di Roma

Per ulteriori info: Fortress Europe | Per organizzare una proiezione: gabriele_delgrande@yahoo.it